Nasce in un tempo particolare un "diario in rete".

Tinkunakama, parola in lingua quechua che potrebbe avvicinarsi alle traduzioni: fino a quando ritorneremo ad incontrarci, oppure ancora: fino alla prossima volta.

Un saluto che non pone fine alla relazione, ad un incontro avvenuto, ma spalanca la speranza futura.

Ci rivedremo, per il momento ti porto nel cuore!

sabato 8 maggio 2021

VI DOMENICA DI PASQUA 2021


VI domenica di Pasqua 2021

 

 

Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 15,9-17

Il tema di fondo è chiaramente quello dell’amore, detto in greco con una parola, agape, che non era molto usata prima del cristianesimo e che i primi cristiani introdussero, preferendola a quella più comune, eros, proprio per indicare qualcosa di nuovo che soltanto in Cristo avevano conosciuto.

Le parole di Gesù sono disposte su tre movimenti:

·      dapprima (VV. 9-10) l’invito a rimanere nell’amore di Gesù, come lui rimane in quello del Padre;

·      poi l’affermazione che quanto Gesù dice è per dare basi solide alla nostra gioia (v. 11);

·      infine i vv. 12-17, che si aprono e si chiudono con il comandamento: “amatevi gli uni gli altri”.

È facile anzitutto osservare come il tema della gioia stia al centro, benché sia appena accennato: il comandamento dell’amore è dato “per la nostra gioia”, perché sia in noi la gioia di Gesù e dia fondamento alla nostra. Dove si vede bene che quello di amare non è un comando qualunque, ma ha a che fare con la radice stessa del vivere, è l’unico che permetta di realizzare una vita vera, nella gioia.

Nella formulazione giovannea, i due comandamenti (ama il prossimo come te stesso e come io ho amato voi) risultano chiaramente unificati nell’amore di Gesù, nel quale bisogna dimorare e a immagine del quale occorre impostare i rapporti reciproci. Non è il nostro amore per Dio o per il prossimo a esserci comandato, ma è quello di Gesù a esserci offerto perché noi lo custodiamo, rimanendo in esso e traducendolo nella pratica fraterna: tutto questo è certo un “comandamento”, anzi il comandamento, ma è in primo luogo un’offerta che ci è fatta.

L’amore del cristiano nasce dunque dal ricevere l’amore di Dio datoci in Gesù; condizione, poi, per rimanere nell’amore di Gesù è l’osservare (letteralmente: custodire) i comandamenti. Si noterà che il contenuto dei comandamenti nel quarto vangelo non viene praticamente mai esplicitato come una serie di precetti da osservare. Ciò che conta è il fatto stesso di pensare la propria vita come obbedienza, come custodia della parola di un Altro. Rimanere nell’amore di Gesù vuol dire riconoscere che la propria vita ha il proprio centro fuori di sé, in lui; vuol dire riconoscere di essere stati costituiti da Gesù nello stato di suoi amici mediante il dono completo che lui ha fatto di sé. Amare è possibile solo perché si riceve l’amore che ci precede.

Restare nell’amore di Gesù vuol dire restare nell’amore di Dio; ma a sua volta il dimorare nell’amore di Gesù si attua solo nell’osservanza dei comandamenti, che Giovanni riassume nell’unico comandamento di amare i fratelli secondo l’amore ricevuto da lui.

 

 

Per giovani 

Il volto: l’apparire e l’apparenza

Appunti per un viaggio spirituale

 

 

Questa domenica, poi, prepara i credenti all’Ascensione e alla Pentecoste, dunque a ricevere il dono dello Spirito, e questo dono può essere ravvisato nella realtà dell’agape, dell’amore di cui parla il vangelo. Il Dio che nessuno ha mai visto si rende visibile nei gesti dell’amore. Così come l’invisibile Spirito si rende manifesto nei suoi frutti e anzitutto nel frutto che è la carità: “Il frutto dello Spirito è carità” (Gal 5,22). E come l’amore proviene da Dio (1Gv 4,7), ma dal Dio che è lui stesso amore (1Gv 4,8), così lo Spirito procede dal Padre, eagrave; dono di quel Dio di cui la Scrittura afferma: “Il Signore è lo Spirito” (2Cor 3,17). Dunque, in un’ottica cristiana l’agape, che è dimensione praticabile, accessibile, che va “fatta”, è anche dimensione che precede e fonda la creatura, è dimensione in cui la chiesa trova la sua essenza. Ha scritto André Malraux: “Il genio cristiano è di aver proclamato che la via del mistero più profondo è quella dell’amore”. “Mistero” è parola che deriva dal greco mýo, che significa “essere chiuso” e anche “essere quieto”, “stare tranquillo”. “Mistero” esprime qualcosa di così profondo da essere inafferrabile, incoercibile nelle nostre categorie, eppure è anche quiete, dimensione in cui l’essere umano trova tranquillità. In questa dimensione di inafferrabilità, che sfugge a ogni controllo e tentativo di possesso, sta l’amore e sta lo Spirito santo.

Il nostro testo è una sorta di inno all’amore e contiene un profondo insegnamento sull’arte di amare. Dice Gesù: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi”. Non dice: “così io ho amato Lui”, ma: “così io ho amato voi”. E più avanti, dopo aver affermato di aver amato i discepoli, non aggiunge, “così voi amate me”, ma: “Amatevi gli uni gli altri” (Gv 15,17). Ecco la logica dell’amore che viene da Dio. L’amore vissuto e poi chiesto da Gesù ai discepoli non è la reciprocità, non è un moto circolare che si snoda in “va e vieni” tra amato e amante. Infatti, come l’amore del Padre per Gesù diviene l’amore con cui Gesù ama i suoi, così l’amore di Gesù per i suoi è chiamato a diffondersi come amore di ciascuno per gli altri. Questa affermazione, che fonda la libertà dei rapporti nella vita comunitaria cristiana, è invito a non pretendere mai reciprocità, ma ad amare nella più assoluta gratuità. Non dice qualcosa di analogo l’evangelista Matteo quando scrive: “Se amate quelli che vi amano, … cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?” (Mt 5,46-47). La rivelazione dell’amore che viene da Dio va ben oltre la logica della reciprocità. Gesù aggiunge, secondo il terzo evangelista: “Amate i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla” (Lc 6,35).

Questa rivelazione sull’amore si accompagna, nel nostro testo evangelico, a parole profonde e uniche sull’amicizia. Dice Gesù, rivolto ai suoi discepoli: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa ciò che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15). Il IV Vangelo in questo passo chiama i cristiani “amici”, fíloi. Il servo è colui che non sa, non comprende ciò che il suo signore fa, e forse non capisce nemmeno ciò che il signore gli fa fare e per­ché glielo fa fare. Pertanto il servo è anche colui che non rimane, che non persevera: “il servo non rimane per sempre nella casa del suo signore" (Gv 8,35). Non sente appartenenza, e non la sente perché manca di libertà. Il servo non può perseverare: solo colui che è libero può perseverare, rimanere. È il discepolo amato, nel IV Vangelo, colui che ri­mane (cf. Gv 21,23).

Amici del Signore, non servi di un padrone: questo l’aspetto sottolineato dal quarto evangelista dello status del credente. Per ricordare che la fede non è esaurita da un’appartenenza ecclesiale, da una pratica rituale e liturgica, da un impegno per gli altri, ma che ha come matrice nasco­sta, profonda e vitale, la relazione personale con il Signore. Relazione cercata, invocata, nu­trita, in cui si rientra dopo l’allontanamento, lo smarrimento, insomma relazione voluta e vissuta. Amicizia con il Signore. Non si tratta di cadere in atteggiamenti affettivi e intimi­stici, ma di prendere sul serio nella propria concreta esistenza la vita in Cristo in cui ci ha immesso il battesimo, di prendere sul serio ciò che Paolo confessa di sé: Cristo ha amato me, ha dato se stesso per me, non io vivo, ma Cristo vive in me (cf. Gal 2,20). Così la morte e resur­rezione battesimali scendono nelle nostre profondità facendoci morire a noi stessi e fa­cendo vivere in noi l’“io” di Cristo. L’amato abita nell’amante, è presenza interiorizzata in lui: “Chi mi ama anch'io lo amerò e verrò a lui e prenderò dimora in lui” (cf. Gv 14,23). E così noi, piano piano, siamo plasmati quali amici del Signore. “Voi siete miei amici se fate ciò che vi comando” (Gv 15,14). Quando obbedire è fare la volontà dell'amato, allora è evento di libertà e dilata­zione di gioia. Ma se l’obbedienza è senza conoscenza e senza amore, allora è impresa di schiavo. Vi è consustanzialità tra amare e fare la volontà dell’altro, dunque tra amare e ob­bedire. Tanto che ci potremmo chiedere: sarà mai capace di amare chi è incapace di obbe­dire? Un amore che rifiuti obbedienza è narcisismo, protagonismo, filautía, è illusione e menzogna; un’obbedienza che non si apra all’amore resta un legalismo, resta minata dalla riserva di sé, dalla diffidenza verso l’altro, dalla ribellione sempre possibile e sempre pronta ad esplodere; resta nella morte e non si apre alla vita. Ebbene la Scrittura già nell’AT comanda: “Tu amerai”. “Tu amerai il tuo prossimo come te stesso” (Lv 19,18), e il NT esprime questo comando: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli al­tri” (Gv 15,17). La Parola e l’altro: entrambi sono un appello all’amore, si sintetizzano nell’amore.

Noi facciamo esperienza di essere amati dal Signore ascoltando, interiorizzando, mettendo in pratica la sua parola e facendola divenire relazioni ed eventi, facendola divenire corporea, incontro di volti. Si tratta di obbedienza, ma obbedire alla parola di colui che ci ama è esperienza di gioia. “Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri” (Gv 15,17). L’amore è comandato perché viene da un Altro e non da noi e perché solo un amore comandato può giungere ad amare il nemico. L’amore è comandato, ma essendo comandato da Gesù che l’ha vissuto fino alla fine, esso è anche narrato e offerto come possibilità reale e praticabile a chi lo accoglie.

 

 

Luciano Manicardi

 

 

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