Nasce in un tempo particolare un "diario in rete".

Tinkunakama, parola in lingua quechua che potrebbe avvicinarsi alle traduzioni: fino a quando ritorneremo ad incontrarci, oppure ancora: fino alla prossima volta.

Un saluto che non pone fine alla relazione, ad un incontro avvenuto, ma spalanca la speranza futura.

Ci rivedremo, per il momento ti porto nel cuore!

domenica 4 aprile 2021

PASQUA 21



Santa Pasqua 2021

 

 

Dal Vangelo secondo Marco Mc 16,1-8

Il racconto pasquale incomincia con l’indicazione del tempo: è il giorno dopo il sabato, e siamo al sorgere del sole. Entrambe le indicazioni segnalano che sta nascendo qualcosa di nuovo: il sabato, pilastro del giudaismo, è ormai superato da ciò che avviene nel “giorno dopo il sabato”; il sole che sorge allude quasi sicuramente al sorgere di un nuovo sole, quello del Risorto che cambia l’uomo. Per il resto, tuttavia, nulla lascia presagire la grande novità che viene raccontata; pur trattandosi del messaggio centrale del cristianesimo, una grande sobrietà caratterizza tutta la narrazione. Mentre per la passione una folla di personaggi aveva assistito all’umiliazione di Gesù, ora l’annuncio della risurrezione è affidato come segreto prezioso a poche donne e poi ai discepoli. Segno, anche questo, di uno stile di Dio che non smette di essere quello della “potenza nella debolezza”, perché la risurrezione non significa la vittoria di Dio nel senso trionfalistico del termine, ma è proprio il riconoscimento che Dio fa del crocifisso come colui nel quale si manifesta il suo modo di essere e di agire.

Personaggi centrali sono le donne, mentre i discepoli appaiono soltanto come destinatari del messaggio delle donne e di una futura apparizione di Gesù. Esse erano già presenti durante la passione e la sepoltura, e ora sono le prime destinatarie dell’annuncio pasquale; esse sono dunque le custodi della continuità della vicenda di Gesù.

Sono vere discepole soprattutto perché hanno imparato da lui il segreto vero della vita, lasciandosi modellare dal suo esempio. Non ci può essere complimento migliore per chi crede! Diversamente dai discepoli, esse non hanno abbandonato Gesù neanche della morte; hanno condiviso, a loro modo, il patire di Gesù, e hanno espresso la vicinanza a lui attraverso l’ultimo gesto che era loro possibile: la cura del suo corpo. È proprio nell’espletamento di questo gesto che hanno la grazia di conoscere, per prime, l’annuncio di Pasqua.

Manifestazione della fedeltà di Dio che risuscita suo figlio, la risurrezione manifesta anche la fedeltà di Dio all’uomo; il cammino delle donne, che sembrava finire nel nulla con la loro azione estrema sul cadavere di Gesù, riceve ora un’apertura inaspettata. Gesù è vivo e le donne capiscono che non si sono ingannate nel porre la loro fiducia in lui; seguirlo non è dunque un’illusione, ma il vero modo per realizzare la vita. 

I discepoli avevano abbandonato Gesù, non si erano dimostrati degni del loro nome, ma Gesù resta loro fedele; l’annuncio dell’apparizione riservata a loro è anche l’annuncio di un perdono che viene loro accordato e che li rende ora propriamente “discepoli”, per la forza della grazia pasquale. Egli apre loro un cammino nuovo, in cui li precede: tale è il significato dell’appuntamento in Galilea, là dove aveva avuto inizio il loro cammino con lui.

 

Per giovani 

Il volto: l’apparire e l’apparenza

Appunti per un viaggio spirituale

 

 

Il mistero della Pasqua è la profondità dell’amore di Dio, da cui nasce un appello e ancor prima una grazia, una vita, che rappresenta un’autentica creazione: “alzati!”.

Vescovo Francesco

 

I PIEDI DI GIOVANNI

 

Carissimi,

è proprio un arrampicarsi sugli specchi voler trovare nei singoli beneficiari della lavanda dei piedi operata da Gesù, la sera del giovedì santo, altrettanti simboli delle diverse condizioni umane sulle quali egli, per impegnarci in un servizio preferenziale di amore, ha inteso richiamare la nostra attenzione?

Ed è proprio fuori posto vedere in Giovanni l’emblema di quel mondo ad alto rischio che si chiama gioventù, e che oggi, nonostante il grande parlare che se ne fa e nonostante il timore non sempre reverenziale che esso incute, tarda ancora a divenire il referente privilegiato della nostra diaconia ecclesiale?

Ed è proprio una forzatura concludere che il Maestro, piegato sui piedi di Giovanni, il più giovane della compagnia, è l’icona splendida di ciò che dovrebbe essere la Chiesa, invitata dal quel gesto a considerare i giovani come “ultimi”, non tanto perché ai gradini più bassi della scala cronologica della vita, quanto perché ai livelli più insignificanti nelle graduatorie di coloro che contano?

Penso proprio di no.

Anzi, se qualcuno, fuorviato chiasso che fanno, dovesse giudicare demagogica l’affermazione che i giovani oggi non hanno voce, mostra di aver frainteso il senso delle tenerezze espresse da Gesù verso quel mondo che ha sempre fatto fatica a farsi ascoltare.

La figlia di Giairo, il servo del centurione, l’unigenito della vedova di Nain, il giovane ricco il figliol prodigo… sono indice di uno sbilanciamento del Signore nei confronti di coloro che, pur essendo oggetto di invidia struggente, hanno da sempre accusato un deficit pesantissimo in fatto di accoglienza.

Ma torniamo ai piedi di Giovanni.

Come motivo iconografico, ma anche come suggestione omiletica, non hanno avuto molto fortuna.

E dire che la mattina di Pasqua, nella corsa verso il sepolcro, si sono dimostrati di gran lunga più veloci di quelli di Pietro, aggiudicandosi, a un palmo della tomba vuota, la prima edizione del trofeo “fede, speranza e carità”.

Ma al di là dello scatto irresistibile del giovane sull'affanno impacciato del vecchio, quei piedi non sono entrati nell'immaginario della gente.

La spiegazione è semplice: la testa del discepolo ricurva sul petto del Maestro ha distratto l'attenzione dal capo del Maestro chino sui piedi del discepolo.

È una riprova ulteriore di come, anche nella Chiesa, le lusinghe emotive della teatralità prevaricano spesso sulla crudezza del servizio terra terra.

Che cosa voglio dire? Che noi ci affanniamo, sì, a organizzare convegni per i giovani, facciamo la vivisezione dei loro problemi su interminabili tavole rotonde, li frastorniamo con l'abbaglio del meeting, li mettiamo anche al centro dei programmi pastorali, ma poi resta il sospetto che, sia pure a fin di bene, più che servili, ci si voglia servire di loro.

Perché diciamocelo con franchezza, i giovani rappresentano sempre un buon investimento. Perché sono la misura della nostra capacità di aggregazione e il fiore all'occhiello del nostro ascendente sociale. Perché se sul piano economico il loro favore rende in termini di denaro, sul piano religioso il loro consenso paga in termini di immagine. Perché, se comunque, è sempre redditizia la politica di accompagnarsi con chi, pur senza soldi in tasca, dispone di infinite risorse spendibili sui mercati generali della vita.

Servire i giovani, invece, è tutt'altra cosa.

Significa considerarli poveri con cui giocare in perdita, non potenziali ricchi da blandire furbescamente in anticipo.

Significa ascoltarli. Deporre i panneggi del nostro insopportabile paternalismo. Cingersi l'asciugatoio della discrezione per andare all'essenziale. Far tintinnare nel catino le lacrime della condivisione, e non quelle del disappunto per le nostre sicurezze predicatorie messe in crisi. Asciugare i loro piedi, non come fossero la pròtesi dei nostri, ma accettando con fiducia che percorrano altri sentieri, imprevedibili, e comunque non tracciati da noi.

Significa far credito sul futuro, senza garanzie e senza avalli. Scommettere sull'inedito di un Dio che non invecchia. Rinunciare alla pretesa di contenerne la fantasia. Camminare in novità di vita verso quei cieli nuovi e quelle terre nuove a cui si sono sempre diretti i piedi di Giovanni, l'apostolo dagli occhi di aquila, che è morto ultracentenario senza essersi stancato di credere nell'amore.

Servire i giovani significa entrare con essi nell'orto degli ulivi, senza addormentarsi sulla loro solitudine, ma ascoltandone il respiro faticoso e sorvegliandone il sudore di sangue.

Significa seguire, sia pur da lontano, la loro via crucis e intuire, come il Cireneo ha fatto con Gesù, che anche quella dei giovani, abbracciata insieme, è una croce che salva.

Significa, soprattutto, essere certi che dopo i giorni dell'amarezza c'è un'alba di risurrezione pure per loro.

E c'è anche una pentecoste. La quale farà un rogo di tutte le scorie di peccato che invecchiano il mondo. E attraverso la schiena della terra adolescente con un brivido di speranza. Saremo capaci di essere una chiesa così serva dei giovani, da investire tutto sulla fragilità dei sogni?

don Tonino Bello

 


 

 

 

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