Vangelo di Marco
Ricorda e racconta
La fede giudaico-cristiana non è un’ideologia da comunicare in un corpo di dottrine teorico-pratiche, né un’illuminazione da ottenere con tecniche spirituali, né un mistero da penetrare con formule o riti particolari. È rivelazione storica di Dio, che ha voluto manifestarsi nelle vicende di un popolo e nella carne di Gesù. Si tratta di un Dio che è manikos eros, amore folle per l’uomo (Cabasilas), e si coinvolge con lui per strapparlo dall’ossessione al passato e farne di un Ulisse, dominato dalla nostalgia del ritorno, un Abramo, preso dalla passione per il futuro, in cammino verso la propria identità nascosta. È un’esperienza di relazioni nuove e liberanti con sé, con gli altri e con l’Altro, che si esprime in avvenimenti da ricordare e da raccontare, perché altri a loro volta, ascoltando, sperimentino, ricordino ad altri ancora, e così via.
Tutta la Bibbia è un’unica grande catechesi narrativa, che riferisce ciò che Dio ha fatto e ciò che si è fatto “per me”. È una storia, che, come ogni altra, vive appunto nel ricordo e si trasmette nel racconto. Il credente è colui che, ascoltandola, accetta di riviverla in prima persona.
Il Vangelo di Marco
Marco, narrando per scritti la vicenda di Gesù, si inserisce coscientemente in questa tradizione catechetica. Egli vuol portare alla contemplazione di un Dio amore crocefisso. Questo è il “vangelo”, ossia la buona notizia che fa piazza pulita di ogni immagine divina che l’uomo da sempre si inventa o si nega.
La figura di Gesù è vista attraverso gli occhi dei primi discepoli, che con fatica sono giunti a riconoscerlo come Salvatore e Signore, accettando di fondare su di lui la propria vita.
Ogni singolo brano ha come soggetto Gesù, che fa o dice qualcosa a qualcuno. Quel qualcuno, di solito anonimo, sono io che leggo, al quale il Signore vuol fare e dire proprio ciò che è narrato. Il lettore quindi non è semplice spettatore; è invece coinvolto, fino a diventare coattore del racconto. E tutto questo con somma libertà, se lo desidera e lo chiede.
Il testo è a struttura nuova alla luce di quanto è stato capito nella precedente. E così senza fine, in un crescendo di partecipazione al mistero dell’amore di Dio.
I livelli di lettura sono diversi. Si passa da quello del precatecumeno, che vuol sapere chi è Gesù, a quello del catecumeno, che vuol conoscerlo e affidarsi a lui, a quello del credente nella Chiesa, che di continuo si confronta con lui, per vederlo e amarlo sempre di più. C’è anche uno svolgimento tematico, che dalla Parola porta al battesimo per giungere all’eucarestia, sorgente e culmine di tutta la vita cristiana, che da essa nasce e ad essa progressivamente si conforma.
Catechesi narrativa
È utile rilevare qui le principali differenze tra il nostro metodo catechetico, che è più dottrinale, e quello biblico, che è narrativo.
1. Il primo comunica conoscenze religiose attraverso concetti, definizioni e ragionamenti; il secondo narra una storia, con azioni e reazioni, un ricordo che si trasmette attraverso il racconto.
2. Il primo, senza il secondo, manca dei suoi contenuti e non rispetta il “metodo” della stessa rivelazione giudaico-cristiana, che è appunto storica.
3. Il primo porta a ritenere ciò che si è capito, e a lasciar cadere il resto, fino a dimenticare un po' alla volta tutto. Infatti ciò che entra nella testa e non passa al cuore, non può essere ri-cordato (= portato al cuore!). il secondo invece porta al cuore un fatto con i suoi dettagli, anche non capiti, che sono tuttavia custoditi, confrontati, ruminati e assimilati con amore. Mentre l’idea è da capire, il fatto è da ricordare, e lo si capisce quando lo si esperimenta.
4. Il primo è culturalmente condizionato: ogni idea è comprensibile da uno che ha la stessa cultura di chi la esprime. Il secondo è in qualche modo transculturale: i fatti parlano da sé, al di là di ogni cultura, e possono essere trasmessi con parole primordiali – quali nascere/morire, mangiare/digiunare, giorno/notte, vita/morte, danza/lutto, gioia/angoscia, lode/lamento, ecc. – che hanno un significato universale. Infatti la notte è buia per tutti, così come il sole illumina e l’acqua bagna tutti. È da notare che Marco è un ebreo che scrive in greco a Roma per schiavi la cui lingua madre non è né il greco né il latino. Ha quindi compiuto un lavoro di inculturazione tale che è difficile immaginarne uno più complesso, eseguito però nel modo più semplice.
5. Il primo suppone una conoscenza teorica in chi espone. Il secondo un’esperienza in chi racconta.
6. Il primo porta a una conoscenza statica, fissata nei concetti, quasi morta. Il secondo a una conoscenza viva, mobile e dinamica, che cresce di continuo secondo il progredire dell’esperienza.
7. Il primo è solo una comunicazione di notizie; il secondo è anche una comunione di persone, che mette in relazione con chi racconta e il suo ricordo, unendo a chi prima di lui ha ricordato, inserendo in una catena che raggiunge il primo stesso che ha visto.
8. Il primo, parlando solo all’intelligenza, è riservato ai dotti; il secondo, parlando al cuore, è per i semplici.
9. Il primo, è a due dimensioni: l’idea è un’immagine che, se è adeguata, si coglie più o meno subito, e tutto finisce lì. Il secondo ha tre dimensioni: i fatti hanno lo spessore irriducibile della realtà, in cui si entra man mano sempre più a fondo.
10. Al primo ci si avvicina per apprenderlo una volta per tutte, e poi lo si accantona. Al secondo invece ci si accosta scorgendo sempre ogni volta qualche aspetto diverso, in una crescita di sapienza amorosa.
11. Nel primo caso è come la scuola d’obbligo: quando uno ha imparato, giustamente non ci torna più (è un caso che il risultato medio della nostra catechesi è che non vengono più in chiesa?). Nel secondo è come con la vita: più la si conosce, più la si desidera.
12. Il primo rischia di essere una vaccinazione, e approda alla noia del deja vu, deja connu. Il secondo è un attingere alla fonte acqua sempre nuova. La ripetizione, lungi dallo stancare, oltre che raffinare il gusto, dà al ricordo il suo pieno sapore. Una successiva esecuzione è più semplice, più essenziale e più bella della precedente!
13. Il primo pretende di “dimostrare”, per costringere l’intelligenza all’assenso, e rischia quindi di togliere la libertà necessaria per l’atto di fede. Il secondo desidera “mostrare”, per aprire alla libertà di una nuova esperienza.
14. Il primo presenta un corpo di dottrine e di morale, che trovi ragionevole e conseguente. Il secondo mira ad offrire una relazione con Dio da persona a persona, uguale a quella di colui che, ricordando, racconta e interpella la responsabilità di chi ascolta, perché partecipi al suo stesso dialogo.
15. Il primo, trasmettendo idee più o meno astratte, non muove all’azione, se non indirettamente. Il secondo riporta esempi, che per conto loro diventano operativi. L’uomo infatti agisce secondo i ricordi che ha.
Concludendo, possiamo dire che il primo modo di fare catechesi è una riflessione posteriore, una sistemazione utile solo nella misura in cui è posteriore. Diversamente manca dei suoi contenuti, e somiglia, più che a un solido edificio ben compatto, a un muro a secco fatto con pietre immaginarie. Il secondo modo è quello che usarono i padri di Israele, Gesù stesso e la prima Chiesa, che ci trasmisero la Bibbia. Essa è appunto “la” catechesi narrativa che nel ricordo/racconto attualizza la storia della salvezza, portando a ciascuno e ovunque i doni che Dio ha fatto una volta per sempre ogni volta.
Accorgimenti
Entro in preghiera:
- Pacificandomi:
· Con un momento di silenzio;
· Respirando lentamente;
· Pensando che incontrerò il Signore;
· Chiedendo perdono delle offese fatte e perdonando di cuore le offese ricevute.
- Mettendomi alla presenza di Dio:
· Faccio un segno di croce;
· Per lo spazio di un Padre Nostro, guardo come Dio mi guarda;
· Faccio un gesto di riverenza;
· Inizio la preghiera, in ginocchio o come più mi aiuta, chiedendo al Padre perché il mio desiderio e la mia volontà, la mia intelligenza e la mia memoria siano ordinati solo a lode e servizio suo.
- Mi raccolgo immaginando il luogo in cui si svolge la scena da considerare
- Medito e contemplo la scena (non avrò fretta, non occorre far tutto, è importante sentire e gustare interiormente.
- Concludo con un colloquio col Signore da amico ad amico su ciò che ho meditato.
· Finisco con un Padre Nostro e esco lentamente dalla preghiera.
Nel cammino di preghiera nessuno è maestro. Ma il Signore ci aiuta e ci istruisce con la Parola e con lo Spirito. Da parte nostra tuttavia è necessario disporci con metodo e impegno, che però lasciano subito spazio all’azione di Dio quando si annuncia.
Comunque chi cerca con la lettura, trova con la meditazione; chi cerca con la meditazione, trova con l’orazione; chi cerca con l’orazione, trova con la contemplazione; chi cerca con la contemplazione, trova con l’unione.
Lo dico a tutti: vegliate
Marco 13, 33-37
Messaggio del contesto
“Lo dico a tutti: Vegliate”. Così Gesù conclude il suo ultimo discorso. Il brano è tutto una variazione sul tema della vigilanza. Inizia con le parole “guardate, vigiliate”, nel mezzo raccomanda due volte di vegliare, e alla fine estende a tutti l’esortazione: “Vegliate”. Il cristianesimo non è oppio. Fa tenere gli occhi aperti, come la saggia civetta, per scrutare nella notte ciò che c’è, ed è nascosto ai più fino a che non viene il sole.
Star svegli è necessario, ma non basta. Il Signore, quando ci ha lasciato, ci ha dato il suo stesso “potere”. Siamo quindi responsabili di fare e dire quanto lui ha fatto e detto, fino al suo ritorno. La vigilanza costante quindi è riempita da una fedeltà operosa.
La storia non è una sala d’attesa. È piuttosto un cammino alla sequela di lui, verso il quale tendiamo. Il suo venire a noi è ormai il nostro andare a lui: il ritorno del Figlio è affidato ai nostri piedi di suoi fratelli che camminiamo come lui ha camminato.
La storia è il luogo del discernimento, che ha come condizione l’attesa vigilante e come risultato l’operosità fedele. La vigilanza è l’occhio del cuore aperto sul Signore per vederlo mentre viene in ogni presente; l’operosità è la mano per compiere con responsabilità l’incarico ricevuto.
Il Signore è già arrivato alla mèta. La sua assenza è ormai la distanza che a noi tocca colmare, percorrendo il suo cammino, fino a quando saremo sempre con lui.
Gesù se ne è andato, ma non ci ha abbandonati. Ci ha lasciato tutto quanto aveva: il suo stesso potere di Figlio. Infatti ci ha battezzati nel suo Spirito, perché possiamo vivere come lui ha vissuto.
Il discepolo deve guardarsi dal fanatismo di chi attende con agitazione, speculando su date e scadenze, come pure dalla delusione di chi non attende più e dorme. Nell’attesa del suo ritorno definitivo, sa che fare: mettere a servizio dei fratelli il suo dono nello Spirito.
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