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lunedì 4 maggio 2020

Stiamo attenti al giorno dopo
in agguato dietro l'angolo c'è
l'autoritarismo illiberale

Intervista a Daniel Innerarity 
(L’Eco di Bergamo 3 maggio 2020)

Daniel Innerarity «Il più colpito ideologicamente sarà il populismo, perché la crisi ha rivalutato le conoscenze specialistiche, le istituzioni (compresi i partiti) e la comunità globale». «Niente ci assicura che si impari dalle crisi: potrebbe accadere che un mondo sia finito e che continuiamo a pensarci con categorie di un'altra epoca, gestendolo come se nulla fosse successo».

Quando aveva 44 anni la prestigiosa rivista francese «Le Nouvel Observateur» lo incluse in una lista dei 25 grandi pensatori del mondo. Daniel Innerarity è uno dei più intriganti filosofi della politica del Vecchio Continente, il suo sguardo
legge spesso in controluce le contraddizioni del pensiero occidentale. Anche la sua Spagna in questi mesi terribili è stata investita dal Covid-19. Gli abbiamo chiesto di aiutarci a vedere più chiaro nella tempesta che ci sta squassando. 
Professore, di fronte all'onda d'urto della pandemia, l'Unione europea ha mostrato crepe impensabili. Nel momento più terribile, quando l'Italia ha chiesto aiuto, Germania e Olanda le hanno voltato le spalle, ciò che ha suscitato l'indignazione di alcuni partner, come il Portogallo. 
«Non sono mai stato un sostenitore della dicotomia egoismo/solidarietà quando si tratta dei dibattiti dell'Unione europea perché moralizzare i problemi ci introduce in un mondo di colpe che impedisce di comprenderne le dimensioni. È meglio partire dall'idea dell'interesse personale e affrontarlo dal punto di vista del bene comune, cercando di identificare le minacce e le opportunità che condividiamo». 
D'accordo, ma all'inizio abbiamo coltivato l'illusione di fermare il virus chiudendo le frontiere. Non le sono venute in mente certe logiche («Sicuri a casa nostra») xenofobe e nazionaliste, abitualmente sbandierate dalle destre europee? 
«La chiusura delle frontiere non sarebbe stata necessaria se ci fosse stata una risposta coordinata alla crisi. Inoltre, il confinamento non può essere una soluzione permanente: genera sfiducia, paralizza l'economia e avrà conseguenze sul piano personale e sociale. La domanda è: come proteggiamo le persone quando i vecchi strumenti hanno perso gran parte della loro efficacia, come lo facciamo senza compromettere le libertà, senza offrire placebo e in un 
momento in cui l'autoritarismo sta guadagnando popolarità? Se non riusciremo a risolvere l'attuale crisi in Europa, avremo un panorama politico polarizzato tra populisti che celebreranno la chiusura dei confini e sottolineeranno l'inefficacia dell'Europa (di fronte all'efficacia dei regimi autoritari) e federalisti, i cui sogni un po' azzardati non tengono conto della reale eterogeneità dell'Europa di oggi». 
Dopo molti anni Jacques Delors, l'ex presidente della Commissione europea, ha rotto il silenzio per denunciare un «pericolo mortale» per il progetto europeo se i Paesi membri si rivelano incapaci di una reale solidarietà. L'Europa è sull'orlo del precipizio? 
«Perché intendiamo tutta l'Europa quando parliamo solo di Germania o Olanda? Va tenuto presente che se l'Unione non ha praticamente competenze in materia sanitaria, è perché gli Stati lo hanno fortemente voluto, e se le mascherine non sono arrivate rapidamente in Italia, è perché la Germania non le ha fornite (non l'Unione europea). Gli Stati sono stati riluttanti a condividere le forniture mediche perché avevano il terrore di esaurirle se fossero state necessarie per loro (nonostante ciò, Francia e Germania hanno finito per inviarle in Italia e gli ospedali tedeschi hanno accolto i pazienti francesi, italiani e spagnoli). Diamo la colpa all'Europa quando non abbiamo voluto darle il livello di integrazione che sarebbe necessario per affrontare crisi come questa. Nonostante le cose che le istituzioni comuni possono fare nell'ambito delle loro competenze, sono gli Stati membri che si oppongono ad affrontare la crisi con una visione d'insieme». 
Vuol dire che non si può chiedere all'Europa quel che l'Europa non è in grado di dare? 
«Molti di coloro che le rimproverano di non aver fatto nulla sono quelli che vogliono impedirle di fare di più. Non ha senso che Stati che non erano preparati a una crisi sanitaria di queste dimensioni chiedano un intervento dell'Unione europea, che non aveva poteri in materia (per decisione degli Stati membri, che li avevano riservati per sé)». 
Stiamo scoprendo un'altra faccia nascosta della globalizzazione. Ci voleva la pandemia per scoprire che dipendiamo dalla Cina in maniera quasi totale per alcuni settori industriali, come l'automotive e la farmaceutica? 
«Amiamo cercare i colpevoli delle crisi e dovremmo moderare questo impulso se vogliamo fare delle buone diagnosi (che senza dubbio includeranno elementi identificativi di irresponsabilità). La globalizzazione ci viene ora presentata come il jolly di tutte le spiegazioni. Il fatto che il coronavirus si sia diffuso a livello globale ci porta a pensare che abbia qualcosa a che fare con la globalizzazione, ma la “de-globalizzazione” non è facile e non è chiaro cosa possa significare. Inizialmente, il virus non sembra essersi diffuso principalmente attraverso il commercio, ma 
attraverso il turismo. Dovremmo vietare i pellegrinaggi alla Mecca o il turismo a Firenze? L'idea che il virus ci stia trasmettendo il resoconto di una globalizzazione disordinata è vera a metà». 
Perché? 
«Ci furono infezioni su vasta scala già nel XIV secolo e poi l'interdipendenza crescente ha aspetti molto positivi, anche quando si tratta di combattere queste pandemie (come la cooperazione scientifica, l'agilità delle informazioni o la comunicazione di esperienze di successo). Se il virus è arrivato dalla Cina e ha avuto effetti così devastanti, non è stato a causa dell'eccessiva globalizzazione: questo è successo perché il virus è stato “globalizzato”, ma le informazioni “nazionalizzate”. È necessario diagnosticare bene quale tipo di costellazione politica proviene dal coronavirus e a quali interazioni obbedisce. Sostenere che si tratta di un virus della globalizzazione sarebbe una semplificazione che non corrisponde al fatto che viviamo in un mondo più complesso, in cui ci sono dimensioni della nostra esistenza che sono diventate molto globali, altre che lo sono divenute di meno, e persino alcune che hanno subito un restringimento. Il punto è che dobbiamo abbinare i rischi che estendiamo con la condivisione delle informazioni, delle tecnologie e delle istituzioni di cui abbiamo bisogno per affrontarli. L'obiettivo è una globalizzazione equilibrata, qualcosa che è alla nostra portata e non una deglobalizzazione totalmente fuori dal mondo». 
Dentro questo equilibrio dovrà abitare anche la giustizia sociale. Le disuguaglianze stavano già crescendo inesorabilmente prima della pandemia, figuriamoci con la crisi economica che seguirà la crisi sanitaria. 
«Il coronavirus non metterà fine alla globalizzazione (se questa idea ha un senso). La domanda è quale forma di organizzazione sia più appropriata per riequilibrare un mondo che ha già avuto molti scompensi che questa crisi ha dimostrato. Dovremo distinguere l'interdipendenza vantaggiosa o inevitabile dalle dipendenze che pongono serie minacce alla sicurezza. Invece di oscillare tra disciplina e disordine, regressione e accelerazione, ciò di cui ha bisogno questa globalizzazione è una maggiore regolamentazione. Prima e dopo la pandemia è ancora vero che i beni pubblici richiedono istituzioni, cooperazione, soluzioni globali». 
Ogni grande epidemia ha portato a una riorganizzazione radicale della politica e della cultura delle nazioni. È così da mille anni. Che cosa accadrà ora? 
«Niente ci assicura che si impari dalle crisi. Potrebbe succedere che un mondo sia finito e che continuiamo a pensarci con categorie di un'altra epoca, gestendolo come se nulla fosse successo. La specie umana deve la sua sopravvivenza all'intelligenza adattiva, compatibile con il fatto che per molti aspetti restiamo istintivamente attaccati a ciò che finora ha funzionato. In quel caso cammineremmo come zombi in mezzo ad avvertimenti seri che non prenderemmo 
abbastanza sul serio, come se la situazione naturale dell'essere umano fosse la distrazione e la società fosse il luogo in cui si attua quell'enorme distrazione collettiva». 
Il confinamento ha reso più visibili talune disuguaglianze. Per esempio, non siamo tutti uguali di fronte al telelavoro. Per non pochi lavoratori uscire di casa è stata una scelta obbligata. 
«Parliamo molto di ciò che impareremo dopo questa crisi. Quando tutti affermano che rivaluteremo la famiglia o lo spazio dell'intimità, oserei presagire il contrario: apprezzeremo la distanza. Non sappiamo (e forse lo scopriremo ora) in che misura una società come la nostra è arricchita dal fatto che non viviamo in circoli sociali ristretti. La scuola è la prima istituzione che consente di non ridurre i contatti sociali alla propria famiglia, l'istituzione che ci allontana dal nostro spazio di ridondanza e ci apre a esperienze di diversità e contrasto, il luogo in cui si impara a gestire le diversità e i primi conflitti. Nonostante gli elogi che l'educazione telematica ora riceve, forse inizieremo a perdere l'uguaglianza della scuola faccia a faccia, con la stessa scrivania e la stessa connessione a Internet, dove viene mitigato il divario digitale. Una funzione simile ha consentito alle donne di accedere al mercato del lavoro: ha permesso loro di emanciparsi dalla dedizione esclusiva alla sfera domestica. Dalla scuola al mercato, esiste nella società moderna un insieme di istituzioni che ci hanno dotato di una libertà che sarebbe stata impossibile nella cerchia familiare o nella società tribale, che non era altro che un insieme di famiglie». 
Il pensiero neoliberalista ha spinto molto sul «capitale umano». È arrivato il momento di riconquistare la dignità del lavoratore? 
«La riflessione ecologica ci ha insegnato molto tempo fa che non possiamo comprendere noi stessi senza alcun inserimento in un contesto naturale. Questa crisi sottolinea ulteriormente i limiti della nostra autosufficienza e della fragilità comune; rivela la nostra dipendenza sia da altri esseri umani sia dal mondo non umano. E mostra che il lavoro è più materiale e biologico di quanto avessero pensato quelli che avevano messo in circolazione termini come “capitale umano”, “flessibilità” e “adattamento”». 
Se non altro, una cosa questa crisi ci ha insegnato: nessuno si salva da solo. 
«All'interno di un processo di questa natura, con la sua complessità e nel mezzo di sviluppi appena iniziati, trarre conclusioni è particolarmente prematuro. Mi permetto, tuttavia, di dire che questa crisi, lungi dal fermarla, rafforzerà la tendenza verso un mondo di beni comuni, quindi, verso un mondo più integrato in termini di regolamentazione e istituzioni. Nonostante le battute d'arresto e la riluttanza, è tempo per l'ordinario. La consapevolezza dei beni e delle minacce che condividiamo dimostra ancora una volta che questi beni e mali collettivi superano la capacità 
degli Stati. Siamo sempre meno in un mondo di Stati sovrani giustapposti, e più in un mondo di spazi sovrapposti, connessi e interdipendenti». 
È venuta alla luce l'importanza del lavoro di cura, medici e infermieri sono diventati gli eroi del nostro tempo. Questa crisi ci insegna il valore di compiti non «mercantili», eppure essenziali. 
«La prova che abbiamo appreso quella lezione e che l'applauso a coloro che se ne prendono cura era sincera è che non accade come nella crisi precedente e che coloro che la pagano non sono esattamente quelli che si trovavano a fare quei lavori precari». 
All'improvviso, alcune professioni molto di moda, e retribuite tantissimo, ci appaiono inutili di fronte ad altre assai più necessarie. Dobbiamo ristudiare la «gerarchia» sociale dei mestieri, in accordo con i nostri valori e relativamente alla loro utilità reale?
«Queste remunerazioni non cambieranno dall'oggi al domani perché hanno in gran parte a che fare con offerte e richieste del mercato. Ora, una certa rivalutazione pubblica potrebbe essere il primo passo affinché questo si traduca in una variazione del valore, in termini monetari, di queste professioni neglette». 
Professore, è la stessa domanda che stiamo rivolgendo ad altri intellettuali europei. È il momento di reinventare l'architettura della democrazia? 
«Il fatto che l'architettura della democrazia debba essere reinventata è qualcosa che non sappiamo solo da questa crisi. La storia di questo XXI secolo, così punteggiata da varie crisi (terrorismo, cambiamenti climatici, crisi economica, disintegrazione europea), ha ripetutamente dimostrato che il nostro mondo è caratterizzato dal fatto che, più che cambiamenti graduali o prevedibili, ci sono sempre più cambiamenti discontinui, improvvisi, imprevisti e che modificano le società in modo catastrofico. Una pandemia è un caso tipico di tali eventi. La difficoltà di 
prevederli non riguarda solo il quando accadranno, ma anche la loro natura, in modo da sapere esattamente cosa accadrà (o cosa è successo e cosa cambierà in seguito). Questo è un territorio che non conosciamo, non lo conoscono neanche quelli che devono gestirlo, esperti e politici». 
Per questo le decisioni per affrontare la crisi hanno sempre un che di sperimentale, se non di improvvisato? 
«E sono persino piene di errori, specialmente quando la natura del problema non è stata ben identificata. La maggior parte di questi errori pratici è dovuta alla mancanza di conoscenza, sia perché non è stato compiuto lo sforzo corrispondente (generazione di conoscenze specialistiche, deliberazione collettiva, lungimiranza e strategia), sia perché la natura stessa di questi fenomeni li mette fuori dalla portata della nostra conoscenza». 
Ogni volta che una pandemia devasta un continente discredita il sistema di pensiero e di controllo che non ha saputo evitare la perdita di tante vite umane. I sopravvissuti si vendicano sui loro maestri, rovesciandone l'autorità. Che cosa accadrà ora? Dobbiamo aspettarci la moltiplicazione delle rivolte sociali, come quelle dei Gilet gialli in Francia? 
«I disastri forniscono prove di danni, ma non di guarigione. L'aspettativa di alcuni che questa catastrofe possa comportare, ad esempio, il colpo finale contro il capitalismo è incredibile quanto garantire che coloro che ne hanno più bisogno trarranno beneficio da questo choc. In questa aspettativa ci sono almeno due ipotesi che sono difficili da credere: che il negativo produca il positivo e che questa nuova positività venga distribuita con equità. Dalle rovine non nasce necessariamente il nuovo ordine e il cambiamento potrebbe essere in peggio. I tempi di crisi possono portare a determinate forme di destabilizzazione che rappresentano un'opportunità per l'autoritarismo illiberale e il populismo». 
In Italia l'esperienza di governo del Movimento 5 Stelle sta dimostrando tutta la difficoltà della «nuova» politica - soprattutto se non immune da un certa demagogia populista - quando è chiamata alla responsabilità del potere... Ci tocca rimpiangere i vecchi partiti? 
«Dal punto di vista delle persone, si dice che quelli più colpiti dalla crisi del coronavirus saranno i più vulnerabili, ma dal punto di vista ideologico, il più colpito sarà il populismo». 
Davvero? 
«Ci sono tre cose che detestano i leader populisti e che questo tipo di crisi rivaluta: conoscenze specialistiche, istituzioni (compresi i partiti come strutture permanenti di intervento nella realtà, al di là della figura del leader occasionale) e la comunità globale». 
Oggi ognuno di noi si sente schiantato dalla coscienza della sua vulnerabilità personale. Sapremo trasformare questa angoscia in risorsa? È lecito sperare di trovare una coscienza universale della vulnerabilità? 
«Sebbene la crisi sembri rafforzare inizialmente la tendenza alla chiusura nazionale, all'interesse personale, nella misura in cui scopriamo quanto i nostri destini sono condivisi e nessuno è completamente isolato e sicuro, si apre il momento di una risposta cooperativa. Si tratta di contenere l'espansione globale del virus, ma non solo all'interno dei nostri confini, perché i virus sono difficilmente neutralizzati dalle strategie di delimitazione o confinamento, che riescono solo a rallentarne, leggermente, la diffusione». 
Prima o poi, la pandemia allenterà la presa. Come spera che prenderà forma il «giorno dopo»? 
«Quando ci chiediamo come sarà il mondo dopo la crisi del coronavirus, cosa cambierà e fino a che punto, è difficile separare la descrizione dalla prescrizione. Non è mai facile, tanto meno in momenti come questi, distinguere tra ciò che crediamo accadrà e ciò che desideriamo che accada, evitare che l'analisi con affermazioni di neutralità si mescoli con ciò che pensiamo dovrebbe accadere. Oggettività, normatività e desiderio si sovrappongono ancora di più nei momenti di tumulto e di smarrimento. Come se ciò non bastasse, non stiamo parlando tanto della divinazione, quanto della configurazione. Le società moderne non si dedicano a indovinare un futuro che arriverà inesorabilmente, piuttosto cercano di plasmare il futuro desiderabile. E ci sono anche le nostre decisioni libere, come soggetti individuali e come società, che trasformano ogni previsione in una scommessa debole». • Marco Dell'Oro 
(traduzione dallo spagnolo di Lucia Ferrajoli) 

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